La sorprendente vita vegetale dei calanchi

La sorprendente vita vegetale dei calanchi

 

“il paesaggio diventa musica

si fa canoro

l’aria respira se stessa

 fino alle gole

dei calanchi”

Franco Brusa

Fino alla metà del secolo scorso non era molto diffuso, tra i botanici, l’interesse nei confronti della vegetazione dei calanchi. Considerata “marginale”, vera e propria cenerentola della ricerca scientifica, la vegetazione legata alla degradazione calanchiva del suolo, nonostante la larga diffusione di questi fenomeni lungo tutto il territorio appenninico, non era stata indagata con ricerche su ampi territori, così come la complessità di un aspetto geomorfologico tanto vistoso e i relativi risvolti culturali, oltre che economici e sociali, avrebbero meritato.
Non va dimenticato che la vegetazione calanchiva, essendo il risultato di una dura selezione operata dalle severe condizioni ambientali, costituisce un tipo di vegetazione di indubbia importanza scientifica, oltre che paesaggistica.
In Italia, a parte i contributi di Adriano Fiori (autore di una delle più seguite Flore italiane) del 1915 sulla flora dei calanchi dell’Emilia e di Pietro Zangheri (eclettico naturalista) degli anni ‘40 relativi al censimento floristico dei calanchi della Romagna, i primi studi sistematici sulla vegetazione calanchiva vengono realizzati agli inizi degli anni ’60 da parte dei botanici delle Università di Genova e Palermo sui calanchi di Calabria e Sicilia. Seguono,  negli anni ’70, i lavori dei botanici delle Università di Bologna e di Pavia sui calanchi dell’Emilia-Romagna  e della Lombardia. Più tardi verranno avviate anche  le ricerche sulla vegetazione dei calanchi della Basilicata.

 

Incisioni calanchive alle Ripe dello Spagnolo (Bucchianico, CH) (G. Pirone)

 

E’ in tale contesto che, verso la fine degli anni ’70, iniziai a rilevare la vegetazione dei calanchi in Abruzzo, regione in cui tali studi erano totalmente assenti nonostante che i fenomeni calanchivi siano ben rappresentati in tutta la fascia dominata dai litotipi argillosi e in particolare nelle valli dei fiumi Sangro-Aventino, Alento e Foro e dei torrenti Piomba e Calvano.
Fu una campagna di ricerca piuttosto faticosa, soprattutto quando, durante le estati particolarmente afose, era necessario, per eseguire i rilievi fitosociologici, arrampicarsi lungo le ripide pareti di argilla “cotta” dal sole nei calanchi delle valli del Piomba e del Calvano (il primo territorio ad essere indagato), nel territorio di Atri. Una  ricerca però anche gratificante, quando in quegli ambienti così severi mi imbattevo in piante di notevole interesse perché molto rare, come nel caso del profumato Assenzio litorale (Artemisia caerulescens subsp. caerulescens), o perché sorprendenti per la loro grande vitalità, e questo era il caso, ad esempio, del Cappero (Capparis sicula), arbusto che con le sue radici si àncora tenacemente alle argille resistendo ai più devastanti episodi di erosione, e delle Tamerici (Tamarix africana), a volte presenti alla base degli anfiteatri calanchivi.
Lo studio sui calanchi è stato poi esteso, fino agli anni ’90, in altri territori abruzzesi, rivelando aspetti inediti che hanno contribuito anche a definire il quadro della sistematica fitosociologia della vegetazione calanchiva in Appennino centro-settentrionale. Quello dei calanchi è indubbiamente uno degli habitat più difficili e selettivi: forte irraggiamento ed elevata aridità estiva, accelerata erosione del suolo, presenza di sali sodici, mancanza quasi totale di sostanze organiche nel substrato, sono tutti fattori che mettono a dura prova le specie vegetali. Già nel 1884 Dante Pantanelli, geologo, paleontologo ed esperto malacologo, osservava, a proposito dei calanchi dell’Emilia-Romagna, che “non vi è per essi che due stagioni: l’inverno che li riveste di un mantello di fango, l’estate che li brucia, disseminandoli di crepacci, uccidendo, con lo scoprirne le radici, qualunque pianta abbia tentato di allignare in quell’ingratissimo suolo”.
Ma come si formano i calanchi? Gli “artefici” sono il sole e la pioggia, con la determinante complicità dell’uomo. Infatti, nelle argille dei versanti esposti a sud e denudati della loro originaria copertura forestale, l’intenso irraggiamento solare dei mesi estivi provoca delle modificazioni fisiche e meccaniche che, attraverso la formazione di fenditure, anche piccole, aprono la strada all’azione della pioggia. Questa, scavando sempre più in profondità, modella gli imponenti apparati erosivi, con forme diverse in funzione della percentuale di sabbia presente nell’argilla: “lame di coltello”, pinnacoli, creste, cupole e un vasto campionario di impluvi di vario ordine.

 

Un aspetto dei calanchi nella valle dell’Alento (G. Pirone)

 

I calanchi nel territorio di Atri (G. Pirone)

 

Le piante dei calanchi sono dei veri pionieri della colonizzazione vegetale e sono portatrici di particolari adattamenti fisiologici e morfologici: possiedono spesso imponenti apparati radicali, sono moderatamente alofile o alotolleranti (come nel caso della annuali Salsola soda (Soda inermis) e Orzo marino (Hordeum marinum) e mostrano una spiccata xerofilìa.
Sulle pareti e sulle creste incessantemente rimodellate dei versanti calanchivi,  lungo le colate di fango continuamente sottoposte a consunzione, la vita vegetale si impone caparbiamente. Ed ecco allora che una delle piante più comuni dei calanchi, la graminacea Agropiro acuto (Thinopyrum acutum), a volte assieme ai cespugli dell’Atriplice alimo (Atriplex halimus) si abbarbica alle pareti dei calanchi con gli efficaci apparati ipogei, superando le più severe fasi erosive.

 

Una pianta di Cappero abbarbicata nei calanchi di Atri (G. Pirone)

 

 

Il raro Assenzio litorale (Artemisia caerulescens) (A. Marzorati)

E poi Tossilaggini (Tussilago farfara), Grattalingue (Reichardia picroides), Lini (Linum strictum), Scorzonere (Scorzonera laciniata), Orzi marini (Hordeum marinum), Loglierelle (Parapholis incurva), Cardarie (Lepidium draba), Millefogli agerati (Achillea ageratum) che vivificano i calanchi con le loro fioriture primaverili.
Non mancano le piante a fenantesi tardiva, di fine estate ed autunnale, a ravvivare le aride argille, come le ispide Broteroe (Cardopatium corymbosum) dalle eleganti infiorescenze blu, gli Astri spillo-d’oro (Galatella linosyris) e le Incensarie (Pulicaria dysenterica) dai bei capolini gialli.
Ai margini delle aree risparmiate dall’erosione, vari arbusti tentano caparbiamente di resistere: Ginestre, Biancospini, Prugnoli, Olmi e, nei territori più aridi, anche alcuni arbusti della macchia mediterranea, oltre al robusto Carciofo selvatico (Cynara cardunculus) e alla dolce Liquirizia (Glycyrrhiza glabra).

 

La spinosissima Broteroa (Cardopatium corymbosum) (F. Rossi)

Nei calanchi dell’Italia meridionale, dalla Campania e Puglia in giù, oltre che in Sicilia, una delle piante più emblematiche è rappresentata dall’umile ma tenacissimo Sparto steppico (Lygeum spartum), una graminacea a distribuzione mediterranea che edifica preziose ed intrepide zolle di prateria nelle aree più aride delle argille sottoposte ad erosione.
Oggi, nei confronti dei calanchi non vi è più l’antica e un tempo, sotto alcuni aspetti, giustificata ostilità che l’uomo riservava loro. Queste peculiari forme di erosione hanno assunto una nuova dignità, soprattutto come valida palestra didattica, laboratorio vivente per lo studio delle scienze naturali e meta di inediti itinerari di turismo naturalistico.

 

l’Astro spillo d’oro (Galatella linosyris) (P. Russo)

Nelle prime pubblicazioni sulla vegetazione calanchiva del territorio atriano avevo sottolineato l’esigenza di una loro tutela.
E’ qui che finalmente, nel 1995, è stata istituita, su oltre 600 ettari di superficie, la Riserva Naturale Regionale dei Calanchi di Atri, oggi meta di appassionati naturalisti e di motivate scolaresche.
Ricordo che negli anni ’60 del secolo scorso, in un libro di testo di Scienze Naturali ad uso degli studenti degli Istituti Superiori,  nel capitolo relativo alla Geomorfologia vi era una bella fotografia dei calanchi di Atri, che all’epoca erano quindi ritenuti idonei, per la peculiarità e la grandiosità delle loro forme, a rappresentare quel fenomeno nella didattica della Geografia fisica. Idoneità alla quale, oggi, si è associata la dignità di un’area protetta.

Prof. Gianfranco Pirone – Botanico

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