Conoscenza e gestione delle radici dei pini. Intervista all’agronomo naturalista Giovanni Morelli.

Fratello Albero torna a intervistare l’agronomo naturalista

Giovanni Morelli, tra i massimi esperti di pini in Europa. 

Le radici dei pini. Conoscenza e gestione.

 

  

Pavimentazioni divelte dalle radici dei pini – Foto Colazilli

 

Un problema sempre molto dibattuto, che mette in crisi privati cittadini e amministrazioni pubbliche, è la gestione delle radici dei pini mediterranei. Com’è strutturato l’apparato radicale di questi alberi?

Tutti i Pini presentano un vigoroso fittone verticale, posto in continuità con il fusto, al quale si affiancano robuste radici fascicolate, più o meno orizzontali, a loro volta dotate di fittoni secondari. Nel tempo i fittoni si ramificano orizzontalmente, a più livelli di profondità, costituendo una serie di palchi radicali sovrapposti. Alla base delle grandi radici fascicolate e delle ramificazioni orizzontali dei fittoni, si formano anche numerose radici avventizie che, stante un modesto livello di lignificazione ed un diametro più o meno costante fin dalla loro origine, vengono comunemente dette “radici corda”. A differenza delle radici fittonanti (verticali) e di quelle fascicolate (orizzontali), le radici corda non hanno una direzione di crescita prestabilita e si “muovono” un po’ in tutte le direzioni, occupando i volumi compresi tra gli altri e più “rigidi” elementi dell’apparato radicale. Esiste poi una grande quantità di radici di assorbimento, fini e ramificate, che completano la colonizzazione del substrato. Le radici fittonanti e fascicolate sono di fatto perenni o lungamente permanenti, mentre le radici corda vanno incontro ad un lento ricambio e le radici di assorbimento, infine, sono tipicamente temporanee nel breve periodo. Questo schema generale è comune a tutti i Pini, pur se con variazioni qualitative e quantitative come espressione dell’adattamento delle diverse specie a varie tipologie fisiche di substrato.

 

Qual è la differenza tra l’apparato radicale di un Pino domestico e quello del Pino d’Aleppo e Pino Marittimo? E’ vero che le radici dell’halepensis sono meno invasive e distruttive del Pinea?

Tutti i Pini mediterranei hanno attitudine ruderale e si sono evoluti per colonizzare substrati poveri, ben drenati, areati fino in profondità e, soprattutto, più o meno incoerenti. Generalizzando potremmo dire che i Pini domestici sono gli specialisti delle ghiaie, i marittimi delle sabbie e gli Aleppo degli ammassi rocciosi più o meno incoerenti; si tratta di substrati infidi, poco propensi ad accettare le sollecitazioni fisiche che derivano dalla presenza di un albero. Per questo motivo, la prima preoccupazione di un Pino è quella di “consolidare” il sito di radicazione ed è a questa esigenza che risponde l’incredibile organizzazione ipogea di questi alberi, organizzazione che, tuttavia, nei suoi dettagli, varia in funzione del substrato di riferimento. Ecco allora che, mentre nel domestico osserviamo un vigoroso sviluppo tanto del fittone che delle radici fascicolate, nel marittimo abbiamo una prevalenza relativa del fittone, mentre nell’Aleppo possiamo apprezzare una maggiore importanza delle radici fascicolate. Nell’Aleppo, in particolare, le radici fascicolate sono “progettate” per insinuarsi tra le rocce, avvolgendole ed abbracciandole, pur senza esercitare forzature che potrebbero avere un effetto destabilizzante; se alle rocce sostituiamo i manufatti urbani otterremo dunque un apparato radicale assai robusto, ma, almeno se paragonato a quello di altri Pini, relativamente “delicato” nel suo agire.

 

Asfalto spaccato dalle radici dei pini – Foto Colazilli

 

Una leggenda metropolitana molto diffusa definisce i pini mediterranei come alberi con radici molto superficiali e incapaci di una buona stabilità. E’ veramente così pericoloso convivere con un pino?

Quando indisturbati e privi di specifiche limitazioni, gli apparati radicali dei Pini – con particolare riferimento al Pino domestico – sono tra i più profondi che si conoscano, ed offrono una formidabile capacità di ancoraggio agli alberi che li possiedono. Di conseguenza, se con il termine di “pericolosità” intendiamo una teorica propensione dei Pini allo sradicamento, possiamo dire che, almeno in termini generali, convivere con un pino è meno “pericoloso” che convivere con altre specie arboree.

 

E i famigerati noduli radicali del Pino domestico, che tanti danni causano alle pavimentazioni e ai manufatti?

I cosiddetti moduli radicali, relativamente comuni in tutta la famiglia delle Pinaceae (quindi presenti non solo nei Pini, né, tantomeno, solo nel domestico), sono particolari formazioni iperplastiche di natura parenchimatica che si formano sulle radici corda. La funzione dei noduli è primariamente – pur se non esclusivamente – di natura meccanica: queste strutture sono infatti in grado di esercitare tanto una attività di “divaricazione” tra gli elementi rigidi ed inamovibili presenti nel substrato che una attività di “consolidamento” tra quelli dispersi ed incoerenti. La formazione dei noduli si innesca quando le radici corda sono soggette ad un carico orientato, carico che, talvolta, aumenta proprio in seguito alla formazione del nodulo; in questo modo si genera una sorta di reazione a catena che porta alla sovrapposizione di diverse generazioni di noduli, tra loro reciprocamente anastomizzati e frammisti ad elementi inerti, sorta di estesi “scudi nodulari” che, a questo punto, esercitano anche una formidabile azione stabilizzatrice del substrato. L’indiscusso maestro delle formazioni nodulari è il Pino domestico. In condizioni naturali è assai probabile che l’ipersensibilità al carico orientato delle radici corda di questa specie sia una sorta di segnale di allarme nei confronti di incipienti destabilizzazioni del teorico substrato ideale – che per il domestico sarebbe non solo prevalentemente ghiaioso, ma anche declivo – cui il pino risponde con una attività plastica ad effetto consolidante. Se, però, al substrato potenziale sostituiamo ad esempio le pavimentazioni stradali, con radici corda costrette a muoversi tra la pavimentazione stessa ed il sottofondo, esposte alla pressione del traffico veicolare (o anche solo pedonale), ecco creato il perfetto demolitore!

 

Il difficile rapporto tra radici dei pini e strade. Vediamo dossi, asfalti spaccati, problemi di viabilità ecc. che rendono difficile la vita degli automobilisti. Molti comuni hanno deciso di intervenire drasticamente eliminando il problema “alla radice”, ad esempio fresando i noduli per poi pavimentare nuovamente. E’ una pratica accettabile?

I noduli radicali svolgono una fondamentale attività strutturale, oltre che biologica. Essi agiscono sinergicamente con il fittone e con le radici fascicolate per garantire un fisiologico rapporto dinamico tra il substrato e l’apparato radicale. Se – pur ammettendo un buon grado di libertà immaginativa – pensiamo ai Pini come a delle grandi navi che poggiano (galleggiano …) su un substrato instabile e mutevole, sia esso fatto d’acqua o di ghiaia incoerente, ecco che gli scudi nodulari, con la loro connessione flessibile al colletto, ci appaiono proprio come delle ancore fissate al fondale. Serve il fittone, servono le radici fascicolate, ma, almeno in un suolo incoerente, ciò che evita lo sradicamento per cedimento del substrato – cioè l’estrazione di tutto l’apparato radicale – sono i noduli; figuriamoci poi se, come spesso accade, fittone e radici fascicolate se ne sono già andate da un pezzo … Come quasi tutto negli alberi, anche i noduli sono ridondanti, surrogabili e resilienti (se eliminati tendono a formarsi nuovamente …), ma c’è un limite. I Pini che cedono per sradicamento, in genere, non hanno subito un solo scavo o una fresatura, ma decine e decine di intromissioni: semplicemente non ne possono più!

 

Esistono sistemi o tecnologie per risolvere in maniera permanente il problema delle radici? 

La risposta è teoricamente affermativa, anche se articolata. In sede di impianto, ad esempio, si possono creare dei substrati artificiali che simulino le condizioni per le quali i Pini sono stati plasmati dall’evoluzione, pur evitando i carichi orientati sulle radici corda. La soluzione più ovvia è quella di predisporre dei substrati tipo terre-pierre (structural soils, in inglese), ovvero costituiti da materiale inerte, stabilizzato per rullatura ma dotato di macro-pori ed interstizi occupati da terreno di coltivo. Su impianti esistenti, l’unica soluzione è quella di elevare il piano di campagna, “annegando” le radici corda in miscele di sabbia e ghiaia più o meno stabilizzate; ma non sempre questo è possibile … Si possono poi adottare anche barriere verticali rigide che, quando posate con un po’ di accorgimenti, possono evitare le “fughe” radicali in orizzontale. Del tutto inefficaci, almeno nella mia esperienza, si rivelano invece i teli anti-radice, almeno nei casi in cui permanga la sollecitazione orientata delle radici corda.

 

Asfalto spaccato dalle radici dei pini – Foto Colazilli

 

Fino a che punto si possono toccare le radici dei pini? E che tipo di reazione ha la pianta di fronte a questi continui interventi antropici?

L’apparato radicale dei Pini, frutto di una sorta di “iper-specializzazione” evolutiva, risulta relativamente poco adattabile e, dunque, sostanzialmente intangibile. Questa intangibilità, se violata, non ha tanto conseguenze dirette sulla stabilità dell’albero nel breve periodo, quanto piuttosto sulla sua capacità di autodeterminazione morfologica. Nel pino domestico ad esempio, seguendo il principio di connessione funzionale tra le diverse regioni anatomiche dell’albero, i danni a carico delle radici fascicolate finiscono per avere ripercussioni dirette sulla vitalità e sulla organizzazione architettonica dei grandi palchi reiterati, mentre danni a carico del fittone compromettono lo sviluppo del tronco principale. In altre parole, l’aspetto esteriore del Pino tradisce puntualmente ciò che accade (o è accaduto …) al di sotto al piano di campagna. Se vogliamo Pini ben conformati, sani e stabili dobbiamo lasciare in pace le radici o, comunque, dobbiamo valutare attentamente le conseguenze di ogni disturbo.

 

La memoria torna ai tragici fatti di Terracina, dove una tromba d’aria ha devastato interi filari di Pino domestico. A seguito di quel disastro molte amministrazioni pubbliche hanno deciso per l’abbattimento di molti pini mediterranei, ritenuti intrinsecamente instabili. Il taglio è già iniziato, con lo stravolgimento di interi paesaggi culturali mediterranei. Come si può combattere l’“alberofobia” dilagante contro questi alberi? E quali sono le azioni giuste da seguire?

Quando, seguendo la suggestione delle cronache, si parla di Pini killer, si trascurano due aspetti fondamentali. Innanzitutto molti episodi drammatici che hanno per protagonisti i Pini si verificano in contesti nei quali queste specie sono assolutamente prevalenti in termini di composizione arborea del patrimonio vegetale. Se si verificano episodi di particolare violenza, dunque, il coinvolgimento di un Pino risulta più come evidenza statistica che come espressione di una presunta fragilità della specie. In secondo luogo, i Pini caduti hanno generalmente subito decenni di disturbi, intromissioni e sevizie dirette o indirette: attività vivaistiche inadeguate, scarsa cura alle caratteristiche del substrato all’impianto, disturbi idrologici, calpestio, fresature delle pavimentazioni, scavi, potature sconsiderate … Insomma, più del cedimento in sé, dovrebbe stupire quanto i Pini possano sopportare prima di cedere. In questo contesto le azioni per scongiurare una “alberofobia” potrebbero limitarsi a tre: conoscere, informare e prevenire. Conoscere significa studiare i Pini e la storia “clinica” individuale degli esemplari che cedono, per relativizzare il cedimento stesso al contesto nel quale si è verificato. Informare significa combattere i luoghi comuni che impediscono un giudizio limpido e realistico sulla propensione al cedimento di questi alberi. Prevenire, infine, significa evitare tutti i disturbi che possono erodere le potenzialità di autosostentamento dei Pini.

 

Pavimentazioni divelte dalle radici dei pini – Foto Colazilli

 

Parliamo dell’allevamento in vivaio, un argomento poco trattato ma importantissimo. Qual è la forma migliore di allevamento dei pini mediterranei per evitare difetti all’apparato radicale?

Il fittone principale svolge un ruolo determinante nella “costruzione” del Pino. La meccanizzazione delle attività vivaistiche, peraltro unita alla tendenza di utilizzare materiale di dimensioni considerevoli (“pronto effetto” …), rende di fatto impossibile la salvaguardia dell’integrità di questo fondamentale elemento anatomico. Grazie alle potature di allevamento, le conseguenze della perdita del fittone possono, almeno in vivaio, essere parzialmente contenute, ma quando gli alberi vengono messi a dimora tendono rapidamente a disorganizzarsi architettonicamente. La conseguenza più evidente consiste nella “impalcatura” dell’albero, ovvero nella precoce formazione dei grandi palchi reiterati. Questi palchi “anomali” presentano potenti ed inedite connessioni con le radici fascicolate per tramite di grandi colonne cambiali, superiormente ed inferiormente dotate di elementi di raccordo – gli pseudostipiti e gli pseudocontrafforti – che, pur simulando strutture anatomiche assai comuni in altre specie (ad esempio molte latifoglie e le Cupressaceae), nel Pino, con particolare riferimento al domestico, assumono invece un carattere patologico di rilevanza diagnostica. In pratica, stante la precoce e sistematica eliminazione del fittone, non siamo più in grado di allevare i grandi Pini della nostra tradizione paesaggistica. L’unica soluzione consiste nell’affinare tecniche di trapianto rispettose delle peculiarità anatomiche dei Pini e, soprattutto, rassegnarsi a lavorare con materiale vivaistico di dimensioni contenute.

 

Quali sono le principali patologie e difetti che colpiscono gravemente l’apparato radicale dei pini?

Innanzitutto abbiamo le alterazioni di natura morfologica che derivano dalla perdita del fittone. In secondo luogo abbiamo tutte le modifiche indotte dall’esecuzione di potature eccessive o tecnicamente insensate. Abbiamo poi le tante mutilazioni che derivano dal taglio delle radici fascicolate e dalla ciclica asportazione delle strutture nodulari. Queste malformazioni agiscono spesso sinergicamente tra loro, cronicizzandosi nel tempo e concorrendo alla progressiva erosione delle potenzialità di autosostentamento dei Pini. Gli eventi meteorologici fanno il resto: “premono il grilletto”, per così dire, di un’arma ormai da tempo carica … Di fatto marginali sono invece le insorgenze patologiche in senso stretto, come le degradazioni fingine, cioè le carie del legno. I Pini hanno apparti radicali robusti e poco malleabili, costruiti a costo di grandi investimenti energetici e destinati a permanere per tutta la loro vita: sanno bene come difendersi!

Pavimentazioni divelte dalle radici dei pini – Foto Colazilli

 

Che tipo di indagini strumentali si possono fare per analizzare l’effettivo stato di salute delle radici dei pini?

Stante la relativa marginalità dei processi degenerativi a carico degli apparati radicali, tutte le metodiche deduttive tese ad accertare l’eventuale presenza di cavità (dendrodensimeti o tomografi sonici, ad esempio) non risultano particolarmente incisive nella definizione della propensione al cedimento dei Pini. Molto più efficaci risultano invece i metodi induttivi attivi (trazione controllata) o passivi (sensori di movimento), almeno nel definire dei comportamenti che devono poi essere criticamente interpretati, ricordando sempre che queste metodiche sono state messe a punto per specie arboree che rispondono ad altri modelli organizzativi e funzionali. Come sempre, però, la valutazione di stabilità si fa soprattutto con gli occhi. Basta sapere cosa guardare …

 

Per concludere, a un Comune o a un privato cittadino possiamo ancora consigliare di piantare pini mediterranei in un parco, in un giardino o lungo le vie cittadine?

A mio parere, non solo possiamo, ma dobbiamo consigliarli. I Pini sono alberi affascinanti, complessi, versatili ed affidabili. Possono vivere in suoli nei quali altre specie non potrebbero mai sopravvivere. Non richiedono potature o altri interventi arboricolturali, sono anzi maestri dell’autodeterminazione. Dobbiamo solo lasciarli fare.

 

Coordinamento Nazionale Alberi e Paesaggio Onlus

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